martedì 4 settembre 2018

Anteprima di Stars noi stelle cadenti di Anna Todd

Buongiorno amici lettori, come state? Qui l'estate sembra aver mollato la presa finalmente ma noi oggi vogliamo innalzare nuovamente la temperatura con quest'anteprima fantastica. Si tratta di "Stars noi stelle cadenti" di Anna Todd.
Si, proprio lei, l'autrice della saga bestseller After (del quale vederemo presto il film).







Titolo: STARS. NOI STELLE CADENTI
Titolo originale: Attracted. The Brightest Star
Serie:  The Brightest Star 1
Autrice: Anna Todd
Editore: Sperling & Kupfer
Data d'uscita: 11 SETTEMBRE 2018
Genere: New Adult

ANNA TODD vive a Los Angeles, California. Dopo aver seguito Wattpad per cinque mesi come lettrice, ha deciso di partecipare da scrittrice, condividendo online le sue storie, un capitolo dopo l’altro. Così è nata la serie After, e il suo successo: oltre un miliardo e mezzo di letture sulla piattaforma online, più di dieci milioni di copie vendute in oltre quaranta Paesi del mondo, al primo posto delle classifiche in Italia, Germania, Francia e Spagna. Anna Todd è anche coproduttrice dell’adattamento cinematografico di After, che sarà distribuito in tutto il mondo nel 2019.










Karina e Kael. Due anime in cerca di un'orbita. Un incontro destinato a incendiare il cielo. Karina ha vent'anni, ma ha già imparato sulla propria pelle quanto la vita possa essere complicata e le relazioni fragili. Per questo, dopo il divorzio dei genitori e anni di traslochi da una città all'altra per via del lavoro del padre, ora è in cerca con tutte le sue forze di certezze e stabilità. Per ricominciare ha scelto un lavoro tranquillo e un piccolo appartamento, bisognoso di qualche riparazione, come il suo cuore, che da tempo si è decisa a non ascoltare. Un giorno, però, incontra Kael, che l'attira a sé con i suoi modi gentili e rassicuranti. Kael è riservato, paziente e un ottimo ascoltatore. Quando è con lui, i dubbi e le insicurezze di Karina si dissipano e il rumore della sua vita caotica sembra magicamente affievolirsi. Ma Kael non è quello che sembra. C'è qualcosa sotto quella facciata calma e rasserenante, uno spirito ribelle, che non sa stare dentro schemi troppo rigidi. Per Karina, però, è ormai troppo tardi e, nonostante la sua ostinata resistenza, si trova coinvolta in un nuovo vortice, in un nuovo mondo ancora più oscuro del suo, e pieno di passione.

Abbiamo trovato sul sito Mondadoristore (dove tra l'altro è possibile comperare il libro) l'estratto dei primi 10 capitoli rilasciato ufficialmente e per Vostra comodità, lo abbiamo riportato di seguito. Buona lettura.









A Hugues de Saint Vincent,
spero che tu senta la passione in questo libro
e spero di continuare a renderti orgoglioso.
Mi manchi terribilmente
e cercherò di bere più vino rosso,

solo per te. <3 rip="" span="">

Playlist

One Last Time – Ariana Grande
Psycho – Post Malone (feat. Ty Dolla $ign)
Let Me Down Slowly – Alec Benjamin
Waves – Mr. Probz
Fake Love – BTS
To Build A Home – The Cinematic Orchestra
You Ougtha Know – Alanis Morissette
Ironic – Alanis Morissette
Bitter Sweet Symphony – The Verve
3AM – Matchbox Twenty
Call Out My Name – The Weeknd
Try Me – The Weeknd
Beautiful – Bazzi
Leave A Light On – Tom Walker
In the Dark – Camila Cabello
Legends – Kelsea Ballerini
Youngblood – 5 Seconds of Summer
Want You Back – 5 Seconds of Summer

1




Karina 2019

IL vento spazza la caffetteria ogni volta che la vecchia porta di legno si apre cigolando. Fa insolitamente freddo per essere settembre e sono piuttosto sicura che sia una specie di punizione dell’universo per aver accettato di incontrarlo, proprio oggi tra l’altro. Cosa mi è saltato in mente?
Non ho quasi avuto il tempo di nascondere le borse sotto gli occhi con un po’ di trucco. E il vestito che mi sono messa: quand’è stata l’ultima volta che ha visto la lavatrice? Per l’ennesima volta, cosa mi è saltato in mente?
In questo momento sto pensando che ho mal di testa e non so se ho qualcosa in borsa. Sto anche ragionando sul fatto che è stato furbo scegliere il tavolo più vicino alla porta così posso andarmene di corsa se necessario. Questo posto nel centro di Edgewood? Neutrale e per nulla romantico. Un’altra buona scelta. Sono venuta soltanto qualche volta, ma è la mia caffetteria preferita di Atlanta. I posti a sedere sono abbastanza limitati – una decina di tavoli – quindi suppongo che vogliano favorire un veloce ricambio della clientela. Ci sono un paio di elementi degni di Instagram, come la parete di piante grasse e le impeccabili piastrelle bianche e nere alle spalle del bancone del bar, ma nel complesso è un ambiente molto austero. Grigio rigoroso dappertutto e calcestruzzo. Frullatori rumorosi che miscelano il cavolo riccio con qualsiasi frutto vada di moda al momento.
C’è una sola porta cigolante: da lì si esce e si entra. Guardo il telefono e mi asciugo le mani sull’abito nero.
Mi abbraccerà? Mi darà la mano?
Non riesco a immaginare un gesto così formale. Non da parte sua. Maledizione. Mi sto agitando di nuovo e lui non è nemmeno qui. Per la quarta volta oggi, sento il panico salirmi dallo stomaco e mi rendo conto che ogni volta che immagino il nostro incontro, lo vedo con gli occhi della prima volta. Non ho idea di quale versione di lui mi si presenterà davanti. Non lo vedo dall’inverno scorso e non so più chi sia. Ma in realtà, l’ho mai saputo?
Forse ho conosciuto solo una delle sue declinazioni, la sagoma vuota e splendente dell’uomo che sto aspettando.
Immagino che avrei potuto evitarlo per il resto della mia vita, ma non rivederlo più mi sembra peggio che stare seduta qui. Questo almeno posso ammetterlo. Sono qui a scaldarmi le mani con una tazza di caffè e ad attendere che entri da quella vecchia porta rumorosa dopo che ho giurato a lui, a me stessa e a chiunque mi abbia ascoltato negli ultimi mesi che non avrei mai…
Non arriverà prima di altri cinque minuti, ma se è ancora l’uomo che ricordo, entrerà impettito, in ritardo, con quella sua aria cupa sul volto.
Quando la porta si spalanca, è una donna a entrare. I suoi capelli biondi sembrano un nido appiccicato sulla minuscola testa. Tiene il cellulare contro la guancia rossa.
«Non mi frega un accidente, Howie. Fallo», dice brusca, scostando il telefono dall’orecchio con una sfilza di imprecazioni.
Odio Atlanta. Le persone qui sono tutte come lei: suscettibili e perennemente di corsa. Non è sempre stato così. O forse sì, ma io no. Le cose cambiano. Una volta amavo questa città, soprattutto il centro. La scelta di posti in cui mangiare è strepitosa e per un buongustaio proveniente da una piccola città… be’, basta questa come ragione per venire a viverci. Ad Atlanta c’è sempre qualcosa da fare e tutto resta aperto più a lungo che a Fort Benning. Però a quel tempo la sua attrattiva maggiore era il fatto di non avere nulla a che fare con la vita militare. Niente mimetiche ovunque guardassi. Niente uomini e donne in uniforme da combattimento in coda davanti ai cinema, alle stazioni di servizio, da Dunkin Donuts. La gente parlava usando parole vere, non solo acronimi. E c’erano un sacco di tagli di capelli non militari da ammirare.
Amavo Atlanta, ma lui ha cambiato tutto.
Noi abbiamo cambiato tutto.
Noi.
Non mi spingerò oltre nell’ammettere le mie colpe riguardo a ciò che è successo.

2

«STAI fissando.»
Sono solo due parole ma mi travolgono, mi entrano dentro sconvolgendomi tutti i sensi. Eppure sento anche quella calma che provo ogni volta che mi è vicino. Alzo lo sguardo per assicurarmi che sia lui anche se lo so benissimo. Difatti è là, in piedi, gli occhi color nocciola puntati sul mio viso, mi sta scrutando… si sta abbandonando ai ricordi? Vorrei che non mi guardasse così. La piccola sala è abbastanza piena, anche se non sembra. Avevo pensato a ogni dettaglio di quell’incontro, ma lui ha mandato all’aria tutto e ora sono tesa.
«Come fai?» gli chiedo. «Non ti ho visto entrare.»
Ho paura che il mio tono sembri accusatorio o tradisca il mio nervosismo, ed è l’ultima cosa che voglio. Però mi domando proprio come faccia. È sempre stato bravo a non far rumore, a muoversi non visto. Un’altra capacità perfezionata nell’esercito, suppongo.Gli faccio cenno di sedersi. Lui si sistema sulla sedia ed è allora che mi rendo conto che ha la barba lunga. Gli zigomi sono delineati da tratti netti, precisi e la mascella è ricoperta di peli scuri. Una novità. Ovvio: prima doveva rispettare il regolamento. I capelli devono essere corti e pettinati con cura. I baffi sono consentiti ma solo se ben curati e se non nascondono il labbro superiore. Una volta mi aveva detto che pensava di farseli crescere ma io lo avevo dissuaso. Anche con un viso come il suo sarebbero stati inquietanti.
Prende il menu dei caffè dal tavolo. Cappuccino. Macchiato. Caffellatte. Flat whiteNero lungo. Da quando è tutto così complicato?
«Adesso ti piace il caffè?» Non cerco di nascondere la sorpresa.
Scuote la testa. «No.»
Un mezzo sorriso gli attraversa il viso imperturbabile ricordandomi dell’esatta ragione per cui mi sono innamorata di lui. Un attimo fa era facile distogliere lo sguardo. Adesso è impossibile.
«Il caffè no», mi rassicura. «Il tè.»
Naturalmente non porta la giacca e ha le maniche della camicia di jeans arrotolate sopra i gomiti. Da sotto spunta il tatuaggio sull’avambraccio, e so che se gli toccassi la pelle sarebbe bollente. Non ho intenzione di farlo, neanche morta, perciò alzo lo sguardo e fisso al di sopra della sua spalla. Per prendere le distanze dal tatuaggio. Per prendere le distanze dall’idea. È più sicuro così. Per tutti e due. Cerco di concentrarmi sui rumori della caffetteria per abituarmi al suo silenzio. Mi ero scordata quanto potesse essere snervante la sua presenza.
È una bugia. Non me ne sono scordata. Avrei voluto farlo, ma non ci sono riuscita.
Sento avvicinarsi la cameriera, le sue sneakers scricchiolano sul pavimento di calcestruzzo. Ha una vocina flebile e quando gli dice che deve «assolutamente» provare il nuovo caffè alla menta, io rido sapendo che odia tutte le cose che sanno di menta, persino il dentifricio. Penso ai grumi rossi di dentifricio alla cannella che lasciava nel lavandino di casa mia, e a tutte le volte che abbiamo litigato per questo. Se solo avessi evitato di brontolare inutilmente. Se solo avessi prestato più attenzione a quello che stava succedendo veramente, sarebbe potuto andare in modo diverso.
Forse. O forse no. Sono una persona che si prenderebbe la colpa di tutto… ma non in questo caso. Non lo so.
Non voglio saperlo.
Un’altra bugia.
Kael dice alla ragazza che vuole un tè nero semplice e, questa volta, mi sforzo di non ridere. È così prevedibile.«Che c’è di tanto divertente?» chiede quando la cameriera se ne va.
«Niente.» Cambio discorso. «Allora, come stai?»
Non so esattamente quali cavolate ci diremo durante il nostro appuntamento in caffetteria. So invece che ci vedremo domani, ma dato che oggi dovevo comunque essere in città, mi era sembrata una buona idea fare l’imbarazzante primo incontro senza pubblico. Un funerale non è certo l’occasione migliore.
«Bene. Date le circostanze.» Si schiarisce la voce.
«Sì.» Sospiro cercando di non pensare troppo a domani. Sono sempre stata brava a far finta che il mondo intorno a me non fosse in fiamme. Okay, negli ultimi tempi ho avuto qualche cedimento, ma per anni mi è venuto naturale, è una cosa che ho iniziato a fare più o meno tra il divorzio dei miei e il diploma delle superiori. A volte ho l’impressione che la mia famiglia stia scomparendo. Diventiamo sempre più piccoli.
«Tu stai bene?» chiede, la voce ancora più bassa di prima.
La sento come la sentivo quelle sere in cui ci addormentavamo con la finestra aperta e il mattino dopo tutta la stanza era piena di umidità, i nostri corpi bagnati e appiccicosi. Mi piaceva la sensazione della sua pelle calda quando la punta delle dita seguivo il suo profilo armonioso. Persino le sue labbra erano calde, talvolta sembrava febbricitante. L’aria della Georgia del Sud era così densa che potevi quasi morderla e la temperatura di Kael era sempre altissima.
Si schiarisce la voce e io torno di colpo alla realtà.
So cosa sta pensando, glielo leggo in faccia chiaro come il neon MA PRIMA, UN CAFFÈappeso sul muro dietro di lui. Odio che il mio cervello associ proprio quei ricordi a lui. Non rende la cosa affatto più facile.
«Kare.» La sua voce è dolce mentre si allunga sul tavolo per toccarmi la mano. La scosto così in fretta che chiunque penserebbe che me la sia bruciata. È strano ricordare come eravamo, non si capiva dove finiva lui e iniziavo io. Eravamo così in sintonia. Così… così diversi rispetto a ora. C’era un tempo in cui diceva il mio nome e io gli davo tutto ciò che voleva. Ci rifletto per un attimo. Davo a quell’uomo tutto ciò che voleva.
Credevo d’essere più avanti nella fase di recupero, nell’operazione di buttarmelo alle spalle. Almeno al punto di non pensare più al suono della sua voce quando lo svegliavo presto per l’allenamento o a come era solito urlare di notte. La testa comincia a girarmi e se non blocco subito la mente, i ricordi mi spaccheranno in due proprio qui, su questa sedia, in questo piccolo locale, davanti a lui. Mi sforzo di annuire e prendo il mio caffellatte per guadagnare un po’ di tempo, solo un istante per recuperare la voce. «Sì. Voglio dire, i funerali sono proprio la mia passione.»
Non oso guardarlo in faccia. «Comunque, non c’è niente che avresti potuto fare. Non dirmi che pensi che avresti potuto…» Tace e io fisso più attentamente la piccola sbeccatura della tazza. Passo il dito sulla ceramica spaccata.
«Karina. Guardami.»
Scuoto la testa, non ho alcuna intenzione di imboccare quella strada insidiosa con lui. Non me la sento. «Sto bene. Sul serio.» Taccio e osservo l’espressione sul suo viso. «Non guardarmi così. Sto bene.»
«Tu stai sempre bene.» Si passa la mano sulla barba e sospira appoggiando le spalle allo schienale della sedia di plastica.
Non è tanto una domanda o un’affermazione, è la pura e semplice verità. Ha ragione. Starò sempre bene.
«Recita finché non ne sei fuori» è la mia tecnica.
Che altra scelta ho?

3

Karina 2017

DAL punto di vista lavorativo avevo vinto alla lotteria. Non dovevo aprire il centro prima delle dieci, perciò quasi tutte le mattine potevo dormire fino a tardi. E andarci a piedi da casa mia, in fondo alla strada, era un vantaggio in più! Adoravo quella via: il negozio di materassi, la gelateria, il nail bar e il vecchio negozio di dolciumi. Avevo messo da parte i soldi ed eccomi qui, a vent’anni, nella mia strada, nella mia casa. Era casa mia. Non di mio padre. Mia.
Per andare al lavoro impiegavo solo cinque minuti, non abbastanza per essere un tragitto interessante. Cercavo più che altro di schivare le auto. Il vicolo era largo quel tanto da consentire a un pedone e a un’auto alla volta di passare. Be’, a una berlina o a una macchina simile; purtroppo qui di solito la gente ama i furgoni enormi, perciò la maggior parte delle volte mi appiattivo contro gli alberi che fiancheggiavano la strada finché mi avevano superata.
A volte inventavo delle storie, una botta di vita prima di iniziare il turno. Quel giorno la storia aveva come protagonista Bradley, il barbuto proprietario del negozio di materassi all’angolo. Bradley era un uomo gentile e indossava quella che sono arrivata a considerare la sua divisa da uomo simpatico: camicia scozzese e pantaloni cachi. Guidava una Ford bianca di qualche tipo e lavorava ancora più di me. Lo superavo ogni mattina, ed era già al negozio prima di me. Anche quando facevo il doppio turno o quello serale, vedevo il suo furgone bianco parcheggiato dietro, nel vicolo.
Bradley doveva essere single. Non perché non fosse carino o dolce, ma perché era sempre solo. Se avesse avuto una moglie o dei figli, li avrei certo visti almeno una volta nei sei mesi trascorsi in quella zona della città, invece no. Che fosse giorno, notte o il fine settimana, era sempre solo.
Il sole splendeva ma non cinguettava neanche un uccellino. Niente camion della nettezza urbana e nessuno che accendesse l’auto. Era tutto stranamente silenzioso. Forse per questo Bradley sembrava un po’ più sinistro quel mattino. L’ho guardato con occhi nuovi e mi sono chiesta perché si pettinasse quei capelli di un biondo quasi bianco con la riga al centro, perché pensasse che fosse una buona idea mettere in mostra una striscia così netta di cuoio capelluto. In realtà, quello che volevo sapere era dove andasse con un tappeto arrotolato nel retro del suo furgone. Forse avevo visto qualche episodio di troppo di CSI, ma non sanno forse tutti come ci si sbarazza di un corpo? Lo avvolgi in un vecchio tappeto e lo scarichi ai margini della città. Proprio mentre la mia immaginazione lo stava trasformando in un serial killer, Bradley mi ha rivolto un saluto cordialissimo e un sorriso, un sorriso vero. O forse sapeva semplicemente essere affascinante e in verità voleva…
Per poco non me la sono fatta addosso quando mi ha chiamato.
«Ehi, Karina! Manca l’acqua in tutti i negozi della via!»
Le sue labbra sottili hanno assunto un’aria molto preoccupata mentre agitava le braccia per mostrarmi quanto fosse arrabbiato. Mi sono fermata e ho sollevato la mano per proteggermi gli occhi dal sole. Era forte, splendeva molto intensamente, anche se l’aria era abbastanza pungente. La Georgia era così calda. Pensavo che dopo un anno mi ci sarei abituata, invece no. Desideravo disperatamente il fresco serale della California del Nord. «Ho chiamato l’azienda idrica, ma finora niente.» Ha scrollato le spalle e alzato il cellulare come prova. «Oh no.» Ho tentato di imitare il suo tono frustrato per la faccenda dell’acqua, ma onestamente speravo che Mali tenesse chiuso per tutto il giorno. Non avevo quasi dormito la notte e mi sarei potuta godere un’altra ora di sonno, o anche venti.
«Continuerò a chiamarli», ha detto.
Le sue dita si sono abbassate per toccare la fibbia di corno della cintura. Sembrava che stesse già sudando e quando ha preso l’enorme tappeto dal pianale del furgone ho avuto l’impulso di aiutarlo.
«Grazie», ho risposto, «avvertirò Mali.»

4

LA porta era chiusa, le luci spente, persino quella dell’atrio che di solito tenevamo accesa, e dentro si gelava. Ho acceso gli scaldaolio e le candele nell’ingresso e in due cabine.
Il mio primo appuntamento sarebbe stato solo alle dieci e trenta. Quello di Elodie alle undici e trenta. Russava ancora quando sono uscita di casa, il che significava che sarebbe arrivata di corsa alle undici e dieci rivolgendo al cliente un bel sorriso e delle scuse frettolose con quel suo grazioso accento francese. Poi avrebbe cominciato la giornata.
Elodie era una delle poche persone al mondo per cui avrei fatto quasi tutto. In particolare ora che era incinta. Aveva saputo del bambino due giorni dopo che suo marito aveva messo piede in Afghanistan. Cose del genere sono la norma da queste parti. L’ho visto succedere ai miei genitori, a Elodie… tutti quelli che vivono attorno alle basi sanno che è possibile. Anzi non solo possibile, è più che altro la prassi quando sei sposata con un militare.
Ho cercato di scrollarmi di dosso i pensieri. Ci voleva di un po’ di musica. Ero riuscita di recente a convincere Mali a lasciarmi mettere qualcosa di più adatto mentre lavoravamo. Non avrei retto a un altro turno di «melodie rilassanti da spa» che si ripetevano per ore. Il rumore soporifero delle onde e delle cascate mi irritava da morire. E mi faceva anche addormentare. Ho acceso l’iPad e nel giro di pochi secondi Banks ha spazzato via il ricordo di tutte quelle musiche dolci e soavi. Mi sono avvicinata al banco per accendere il computer. Neanche due minuti dopo è entrata Mali con un paio di grandi borse appese alle braccia sottili.
«Che c’è?» ha chiesto mentre gliele prendevo.
«Mmm, nulla. Niente, ciao? Niente, come va Karina?» Sono scoppiata a ridere e sono andata nel retro.
Il cibo nelle borse aveva un profumo buonissimo. Mali preparava i migliori piatti tradizionali thailandesi che avessi mai assaggiato e ne faceva sempre una porzione in più per me ed Elodie. Ne beneficiavamo almeno cinque volte alla settimana. Il piccolo avocado, così Elodie chiamava il suo pancione, bramava solo noodles zeppi di spezie. Soprattutto basilico. Da quand’era rimasta incinta, Elodie aveva una fissazione per il basilico, al punto che lo toglieva dai noodles per masticarlo. Un bambino può farti fare le cose più strane.
«Karina», ha esclamato Mali sorridendo. «Come stai? Hai l’aria triste.»
Così era fatta Mali. Cosa c’è? Hai l’aria triste. Se pensava qualcosa, lo diceva.
«Ehi… sto bene», ho risposto. «È solo che non mi sono truccata.» Ho alzato gli occhi al cielo e lei mi ha sfiorato la guancia con un dito.
«Non è per questo», ha replicato.
No, non lo era. Però non ero triste. E non ero contenta di aver abbassato la maschera tanto da lasciare che se ne accorgesse. Per niente.

5

SONO arrivate le dieci e trenta e il mio cliente si è presentato in orario. Ero abituata alla sua puntualità, per non parlare della pelle morbida. Era chiaro che usava l’olio dopo la doccia e questo rendeva più facile il mio lavoro: spalmare olio su una pelle già morbida. Aveva sempre i muscoli contratti, soprattutto all’altezza delle spalle, quindi immaginavo stesse seduto a una scrivania tutto il giorno. Non era un militare, lo avevo intuito dai capelli più lunghi, arricciati in punta.
Quel giorno le sue spalle erano così tese che ho sentito un po’ di male alle dita quando gliele ho massaggiate. Era un mugolatore – molti clienti lo erano – e faceva profondi versi di gola quando gli scioglievo le contratture del corpo. L’ora è passata alla svelta. Quando ho finito, ho dovuto battergli sulla spalla per svegliarlo.
Il cliente delle dieci e trenta – si chiamava Toby, ma a me piaceva chiamarlo «dieci e trenta» – mi lasciava mance generose e non creava complicazioni. Tranne quella volta in cui mi aveva chiesto di uscire. Elodie si era spaventata quando glielo avevo raccontato. Voleva che lo dicessi a Mali, ma io non volevo che diventasse un problema visto che non era detto che lo fosse. Ha accettato il mio rifiuto, cosa insolita per un uomo, lo so. Comunque sia, da allora non ha mai più accennato al fatto d’essere attratto da me, quindi presumo che tra noi sia tutto a posto.
Erano le undici e quarantacinque e di Elodie ancora non c’era traccia. Di solito mandava un messaggio se aveva più di quindici minuti di ritardo. Il cliente in attesa doveva essere nuovo perché non l’ho riconosciuto, e io non dimentico mai una faccia. Sembrava piuttosto paziente. Mali no, invece. Un paio di minuti e avrebbe chiamato Elodie.
«Posso prenderlo io se tra cinque minuti non arriva. La mia prossima cliente può essere rimandata di un’ora. È Tina», le ho detto. Mali conosceva gran parte dei clienti che andavano e venivano al centro; lei ricordava i nomi come io le facce.
«D’accordo, d’accordo. Ma la tua amica è sempre in ritardo», ha osservato con tono di rimprovero. Mali era una donna molto gentile ma aveva un temperamento di fuoco.
«È incinta», ho esclamato difendendo la mia amica.
Ha alzato gli occhi al cielo. «Io ho cinque figli e lavoro senza problemi.»
«Touché.» Ho riso sommessamente e mandato un messaggio a Tina per sapere se potesse venire all’una. Ha risposto subito di sì, com’ero certa avrebbe fatto.
«Signore», ho detto all’uomo in attesa. «La sua terapeuta sta tardando. Posso trattarla io se vuole. Oppure può aspettare.» Non sapevo se per qualche ragione preferisse lei o se volesse soltanto un massaggio. Adesso che eravamo su Yelp e in un sistema di prenotazione online, non sapevo mai quali clienti volessero una terapeuta specifica.
Si è alzato e avvicinato al banco senza dire una parola. «Le va bene?» ho chiesto.
Ha esitato per un secondo prima di annuire. Okay…
«D’accordo.» Ho guardato il calendario appuntamenti. Kael. Che nome strano. «Mi segua, prego.»
Non avevamo una cabina personale, non tecnicamente, ma avevo sistemato la seconda a sinistra secondo il mio gusto, quindi era quella che usavo di più. Nessun’altra la prendeva a meno che non fosse costretta.
Mi ero portata il mio armadietto, le mie decorazioni, e stavo cercando di convincere Mali a lasciarmi dipingere i muri. Qualsiasi cosa sarebbe stata meglio di quel viola scuro. Non era esattamente rilassante, inoltre era spento e faceva sembrare la stanza antiquata.
«Può mettere i vestiti sulla gruccia o sulla sedia», gli ho spiegato. «Si spogli pure ma si tolga solo quello che si sente. Si stenda sul lettino a faccia in giù. Tornerò tra un paio di minuti.»
Lui non ha detto una parola, è rimasto in piedi accanto alla sedia e si è sfilato la maglietta grigia dalla testa. Era senz’altro un soldato. Dalla corporatura massiccia alla testa quasi rasata, i segni c’erano tutti. Sono cresciuta nelle basi dell’esercito, perciò li riconoscevo. Ha piegato la maglietta e l’ha posata sulla sedia. Quando si è afferrato i pantaloni della tuta, l’ho lasciato solo perché si svestisse.

6

HO preso il telefono dalla tasca e ho letto la prima riga di un messaggio di papà.
A stasera. Estelle sta preparando uno dei suoi piatti speciali!
Potevo elencare almeno mille cose che avrei preferito fare, ma quello era il rito del martedì di noi tre, a volte di noi quattro. Mi ero persa solo una cena di famiglia da quand’ero andata a vivere per conto mio un anno prima, ed era stato quando mio padre aveva portato Estelle con il camper alla cerimonia di diploma di un lontano parente in un campo di addestramento, quindi tecnicamente non ero stata io a perderla. Loro l’avevano fatta lo stesso, durante la mini vacanza, mentre io ed Elodie ci eravamo strafogate di pizza.
Non ho risposto a papà perché sapeva che sarei stata là alle sette. La mia «nuova» mamma sarebbe stata in bagno ad arricciarsi i capelli e la cena non sarebbe iniziata subito. Io però sarei stata puntuale, come sempre.
Erano passati tre minuti da quando avevo detto al cliente di Elodie che sarei tornata per iniziare il trattamento, perciò ho scostato la tenda e sono entrata nella cabina. Le luci erano abbassate e tutto aveva assunto una sfumatura viola per colpa di quegli orrendi muri. Le candele erano accese da un po’ e l’aria profumava decisamente di citronella. Anche dopo la mia notte agitata, quella stanza aveva il potere di calmarmi.
Lui era sul lettino al centro della cabina, la coperta bianca tirata fin sulla vita. Mi sono sfregata le mani. Avevo ancora le punte delle dita troppo fredde per toccare la pelle di qualcuno, mi sono avvicinata al lavandino per scaldarmele. Ho aperto il rubinetto. Niente. Mi ero già scordata dell’avvertimento di Bradley e nell’ultima ora non avevo avuto bisogno dell’acqua.
Mi sono sfregata di nuovo le mani e le ho messe sullo scaldaolio sul bordo del lavandino. Era un po’ troppo caldo ma è servito allo scopo. L’olio sarebbe stato tiepido sulla sua pelle, e probabilmente non si sarebbe accorto che mancava l’acqua. Era un sistema poco pratico ma fattibile. Speravo che chiunque avesse fatto l’ultimo turno il giorno precedente avesse messo gli asciugamani puliti nello scaldasciugamani prima di andarsene.
«Ha qualche punto contratto o dolente in particolare su cui vuole che mi concentri?» ho chiesto.
Nessuna risposta. Si era già addormentato?
Ho atteso qualche istante prima di richiederglielo.
Ha scosso la testa rasata nel foro per il viso e ha detto: «Non mi tocchi la gamba destra. Per favore», ha aggiunto «per favore» alla fine, in un secondo momento.
Ricevevo sempre richieste di non toccare qualche parte del corpo per ragioni varie, dai problemi di salute all’insicurezza. Non era compito mio fare domande al riguardo. Lo era invece far star meglio il cliente. Sembrava che ogni volta che non facevo compilare la cartella personale, loro avessero delle richieste speciali. Mali mi avrebbe sicuramente rimproverata per questo.
«Certo. Desidera un massaggio lieve, medio o energico?» ho chiesto prendendo la boccetta d’olio dallo scaffale dell’armadietto. All’esterno era ancora molto calda, ma sapevo che la temperatura dell’olio sarebbe stata perfetta a contatto con la pelle.
Ancora una volta nessuna risposta. Forse non sentiva bene. Era un’altra cosa a cui ero abituata, uno degli aspetti più duri della vita dei soldati.
«Kael?» Senza sapere perché l’ho chiamato per nome.
Ha sollevato la testa così di scatto che ho pensato di averlo spaventato. Io stessa ho sussultato lievemente. «Scusi, volevo solo sapere che intensità di massaggio desiderasse.»
«Va bene tutto.» Non sembrava sapere cosa volesse. Probabilmente era la prima volta. Ha rimesso la testa nel foro.
«Okay. Mi dica solo se ho una mano troppo leggera o troppo pesante», gli ho risposto.
Sapevo essere piuttosto energica, e ai miei clienti piaceva, ma non avevo mai avuto a che fare con quell’uomo prima.
Chi sapeva se sarebbe tornato? Solo quattro nuovi clienti su dieci tornavano, e solo uno o due diventavano abituali. Il nostro centro non era grande ma avevamo una clientela fissa.
«Questo è un olio alla menta», ho detto versandomene alcune gocce sull’indice. «Gliene metterò un po’ sulle tempie. Favorisce…»
Ha sollevato la testa e l’ha scossa leggermente. «No», ha esclamato. Il suo tono non era sgarbato ma faceva intendere che non voleva assolutamente che usassi l’olio alla menta.
«Okay…» Ho riavvitato il tappo e aperto il rubinetto. Maledizione. L’acqua. Mi sono inginocchiata e ho aperto lo scaldasciugamani. Vuoto. Ovvio.
«Mmm, solo un secondo», ho detto. Ha rimesso la testa nel foro e io ho chiuso lo sportello dello scaldasciugamani un po’ bruscamente. Mi sono augurata che non avesse sentito il colpo sopra al rumore della musica. Non sarebbe stato il trattamento più facile del mondo…

7

MALI era in corridoio quando sono spuntata dalla tenda sottile in cerca di asciugamani. «Ho bisogno di acqua. O di asciugamani caldi.»
Ha accostato le dita alle labbra per invitarmi a fare silenzio. «Non c’è acqua. Ho gli asciugamani. Chi non li ha rimessi a posto?»
Ho scrollato le spalle. Non lo sapevo e in verità non mi importava. Ne volevo solo uno. «È nella stanza da cinque minuti e non ho ancora cominciato.»
A quel punto è scomparsa velocemente nella stanza di fronte ricomparendo subito dopo con qualche asciugamano caldo. Li ho afferrati e passati da una mano all’altra per raffreddarli.
Tornata nella cabina, ho scrollato un asciugamano e gliel’ho passato sulla pianta dei piedi. La sua pelle era così calda al tatto che l’ho scostato e gli ho toccato il polpaccio per accertarmi che non avesse la febbre. Non potevo permettermi di ammalarmi.
Nel senso letterale del termine. L’assicurazione sanitaria famigliare di mio padre stava per scadere e non potevo pagarmene una di tasca mia.
La sua pelle era davvero molto calda. Ho sollevato la coperta e mi sono accorta che aveva ancora addosso i pantaloni. Era… strano. Non sapevo come avrei fatto a massaggiargli l’altra gamba, quella che avrei dovuto trattare.
«Vuole che eviti tutte e due le gambe?» ho chiesto con tono calmo.
Ha annuito, sempre con la testa nel foro. Ho continuato a passare l’asciugamano sulle piante dei piedi, lo faccio sempre. L’igiene dei clienti… be’, diciamo solo che varia. Alcuni arrivano con i sandali dopo aver camminato tutto il giorno. Non quell’uomo, comunque. Doveva essersi fatto la doccia prima di venire qui. L’ho apprezzato. Queste sono le cose a cui pensi quando fai il mio lavoro. Ho iniziato dagli avampiedi applicando una certa pressione per poi spostarmi sull’arco del piede sinistro. C’era una vaga linea in rilievo, in basso, ma al buio non vedevo la cicatrice. Ho passato lentamente il pollice sull’arco e ha avuto un lieve sussulto.
Sapevo calcolare alla perfezione la durata delle sedute dedicando circa cinque minuti a ogni gamba, perciò ho sfruttato il tempo in più per trattare le spalle. Molti concentravano lì le tensioni, ma quell’uomo… se quelle non erano le spalle più rigide che avessi massaggiato, poco ci mancava. Ho dovuto impormi di non fantasticare sulla sua vita.
Ho continuato tenendogli le gambe coperte e trattando il collo, le spalle e la schiena. Sentivo sotto le dita i suoi muscoli scolpiti, ma non erano grossi o duri. Ho immaginato che il suo giovane corpo avesse portato a lungo un peso, forse di uno zaino. Forse della vita stessa. Non comunicava abbastanza di sé perché potessi inventarmi la storia della sua vita come avevo fatto con Bradley e con gran parte degli sconosciuti che mi circondavano. Qualcosa in lui teneva a freno la mia immaginazione.
L’ultima parte che ho trattato è stata il cuoio capelluto. I clienti di solito mugolavano, o quanto meno sospiravano, durante quella delicata manipolazione, ma dalla bocca di quell’uomo non è uscito niente. Non ha fatto neanche un verso. Ho pensato che si fosse addormentato. Succedeva spesso e, quando capitava, ero contenta. Significava che avevo fatto un buon lavoro. Quando la seduta è finita, mi è sembrato di aver appena cominciato. In genere mi perdevo nei miei pensieri: mio padre, mio fratello, il lavoro, la casa. Quel massaggio invece era stato particolare. Non ero riuscita a pensare a niente.
«Grazie, è andato tutto bene?» chiedevo a volte. Ma quell’uomo era così taciturno che non sapevo se si fosse goduto il trattamento. Ha tenuto la faccia nel foro, quindi ho faticato a sentirlo quando ha risposto: «Sì».
Okay…
«Okay, bene, ora me ne vado e la lascio vestirsi, ci vediamo nell’atrio quando ha finito. Faccia con calma.»
Ha annuito e sono uscita dalla cabina. Ero piuttosto sicura che non avrei ricevuto nessuna mancia.

8

HO sentito la voce di Elodie nell’atrio. Stava parlando con Mali, che la stava rimproverando per il ritardo.
«Ho preso io il tuo cliente. Si sta rivestendo», l’ho informata. Non guastava far sapere a Mali che era tutto sotto controllo, che non c’erano stati problemi. Elodie mi ha sorriso e ha piegato la testa di lato. Grazie a quel suo non so che, se la cavava in quasi tutte le situazioni.
«Mi dispiace tanto, Karina. Grazie.» Mi ha baciato su entrambe le guance. Era un’usanza a cui mi ero abituata fin dalla prima settimana in cui è arrivata. In realtà non amavo il contatto fisico, ma con lei mi era difficile sottrarmi come facevo di solito con gli altri.
«Stanotte non sono riuscita a dormire. L’avocado si è messo a scalciare.» Il suo sorriso si è allargato ma vedevo dai suoi occhi che non era riposata. La capivo benissimo.
Mali le ha messo una mano sul ventre e ha iniziato a parlare al bambino. Mi aspettavo quasi che gli chiedesse, Cosa c’è? Perché non sorridi? Mali era dolce e gentile con i bambini, anche con quelli non ancora nati. Il modo in cui toccava Elodie mi metteva un po’ a disagio, ma l’idea che il bambino scalciasse era eccitante, perciò ho sorriso. Ero davvero felice per la mia amica. Mi preoccupava che fosse così sola qui, con la sua famiglia e gran parte degli amici dall’altra parte dell’Atlantico. Era giovane, davvero giovane. Mi sono chiesta se fosse riuscita a dire a Phillip che pensava di aver sentito il bambino muoversi ieri, o se lui avesse avuto modo di controllare la mail. I fusi orari rendevano molto difficile a Elodie, e a qualsiasi compagna di un soldato, comunicare con il proprio uomo quando lo desiderava. Lei, tuttavia, sopportava con la stessa grazia con cui faceva tutto. Eppure, il fatto che nel giro di pochi mesi avrebbe avuto un bambino mi spaventava a morte.
Elodie ha spostato all’improvviso lo sguardo sulla tenda alle mie spalle e si è illuminata come un albero di Natale superandomi con una spinta. Ha detto un nome che non ho sentito bene ma che non suonava affatto come Kael. Lo ha baciato sulle guance e abbracciato.
«Sei qui? Non posso crederci! Come facevi a sapere dove trovarmi?» ha strillato abbracciandolo di nuovo.
Mali ha indicato con un cenno la cliente che stava entrando in quel momento. «Torna al lavoro», ha detto.

9

TINA era una delle mie clienti preferite. Lavorava da casa come terapeuta famigliare e più di una volta mi permetteva di usare la sua ora di massaggio come terapia per me. Non mi aprivo con molte persone, ma lei non aveva nessuno a cui raccontare i miei segreti. L’idea comunque mi rattristava: pensavo a quanto dovesse sentirsi sola nella sua grande casa vuota mentre cenava davanti alla tv. Ma in fondo la mia vita era uguale, quindi presumevo di non dover stare troppo male per lei. Ho avuto una fitta di paura e mi sono sentita vagamente in colpa: un giorno sarei finita come lei?
La seduta di oggi sembrava non finire mai. Ho guardato di nuovo l’orologio: restavano dieci minuti.
«Allora come va con tuo fratello?» ha chiesto. Le ho scostato i capelli per potermi concentrare sui muscoli rigidi del collo. Se li era tagliati di recente – «alla Demi», come diceva lei – ma odiava il risultato e aveva iniziato subito a portare un cappello per nascondere le ciocche scure. Non erano ancora abbastanza lunghe per poterle raccogliere in una coda.
Non mi andava proprio di parlare di mio fratello. In realtà non mi andava di sentirmi come mi sarei sentita se avessimo parlato di lui.
«Come sempre. Da quando sta con mio zio non ho quasi sue notizie. Chissà quando tornerà.» Ho sospirato passandole le dita sul collo.
«Studia già là?»
«No. Continuano a dire che lo iscriveranno ma non lo hanno ancora fatto.» Cercavo di non pensarci più di tanto ma il mio cervello non funzionava così. Una volta che la porta era stata socchiusa, veniva scardinata e tutto mi piombava addosso.
«Sembra che non ne abbiano l’intenzione», ha osservato Tina.
«Sì. Ho pensato la stessa cosa. Lui non me ne vuole parlare e la sua borsa di studio per il college è scaduta il mese scorso.»
Ho sentito tante piccole fitte nelle spalle e lungo la schiena. Capivo perché Austin non riuscisse più a stare con nostro padre, ma ero combattuta: era il mio gemello, aveva vent’anni e non stava combinando niente. Non avrebbe dovuto vivere nello Stato vicino con uno zio trentenne, che puzzava di patatine e guardava porno online tutto il giorno. Ma non volevo neppure che stesse da me. Era complicato. Non riuscivo ancora a credere che papà lo avesse lasciato andare. E in fondo non potevo biasimare mio fratello. Era proprio complicato.
«Onestamente Karina, non puoi prenderti tutta la responsabilità di questa storia. Non ti fa bene, e alla fine avete la stessa età, è nato cinque minuti dopo di te, se ricordo bene.»
«Sei.» Ho sorriso passando alle scapole.
Sapevo che aveva ragione, ma questo non rendeva affatto le cose più facili.
Ho iniziato a fare pressione. «Devi decidere cosa è meglio per te», ha affermato. «Stai iniziando un nuovo capitolo e dovresti avere una vita il più tranquilla possibile.»
Più facile a dirsi che a farsi.
«Stasera chiederò a papà se ha sue notizie.»
Tina non ha ribattuto. Sapeva che parlare della cena con la mia «famiglia» sarebbe stato troppo per me in quel momento, quindi si è limitata a godersi il resto del trattamento mentre i pensieri mi ribollivano in testa.

10

QUANDO ho finito di lavorare erano quasi le sei. Dopo Tina ho avuto altri tre clienti, e ognuno ha tenuto la mia mente occupata in modo diverso. Stewart – la chiamavo per cognome, era scritto sull’uniforme – era un medico dell’esercito e aveva gli occhi più belli che avessi mai visto. Mi ha distratto parlandomi della sua prossima destinazione, di come, con il suo lavoro, potesse essere inviata ovunque nel mondo, essere mandata alle Hawaii, per esempio, significava aver vinto alla lotteria. Era bello vederla così felice.
Tra i militari c’erano persone che amavano spostarsi, e Stewart era una di queste. Aveva solo un anno più di me, ma era già stata in Iraq due volte. E aveva molte storie da raccontare. A ventun’anni aveva avuto esperienze che la maggior parte della gente non si sognerebbe nemmeno. Quando però quelle esperienze si trasformavano in ricordi… be’, cominciavano a girarle continuamente per la testa. Senza mai sbiadire, senza mai placarsi, un rumore di fondo che alla fine diventava permanente; tollerabile, certo, ma sempre presente. Conoscevo bene il problema. La testa di mio padre era piena di quel clamore. Dopo sei turni in Iraq e Afghanistan, riecheggiava in tutta la nostra casa. In tutta la sua casa.
Riflettevo mentre Stewart era stesa sul lettino. Ero contenta che si aprisse con me, che si sfogasse chiacchierando e attutisse un po’ quel rumore. Sapevo meglio di altri che non era solo il massaggio in sé ad allentare le tensioni, a rivitalizzare il corpo.
Il modo in cui Stewart parlava della sua vita era quasi poetico. Sentivo dentro di me ogni parola mentre si raccontava. Riflettevo su cose che cercavo a tutti i costi di evitare. Stewart mi ha regalato una visione nuova: dopo aver saputo quello che aveva passato e imparato, ho guardato tutto da una prospettiva diversa.
Per esempio, spesso ripeteva che negli Stati Uniti meno dell’otto per cento dei cittadini ha servito nelle forze armate. E con questo si riferiva a tutte le branche e a tutti i veterani che hanno servito anche solo per un periodo. Su trecento milioni e più di persone, meno dell’otto percento. Mi è stato difficile realizzare che il modo in cui sono cresciuta, spostandomi da una base all’altra, cercando di farmi sempre nuovi amici e di adattarmi a sconosciuti ogni pochi anni, non era la realtà per la maggior parte delle altre persone. O, comunque, per la maggior parte degli americani. Meno dell’otto percento? Una cifra così bassa mi sembrava impossibile. Dal mio bisnonno a mio padre, dai miei zii ai miei cugini sparsi per il Paese (tranne quello sfigato di zio con cui abitava mio fratello), tutti attorno a me portavano l’uniforme o vivevano con qualcuno che la portava. Fino a Stewart e alle sue statistiche, il mondo non mi era mai sembrato così grande.
Parlava molto durante le sedute, come Tina. Ma a differenza sua non si aspettava che raccontassi a mia volta qualcosa. Potevo nascondermi dietro le sue esperienze, molte delle quali mi costringevano a soffocare le lacrime. Forse per questo le sedute con lei passavano tanto in fretta.

11

L’ACQUA è tornata poco dopo che Stewart se n’è andata. Ho lavato teli e asciugamani, poi, mentre aspettavo il cliente successivo o che ne entrasse uno senza appuntamento, ho lavorato a una nuova playlist.
Elodie era sempre impegnata quando finivo una seduta. Morivo dalla voglia di chiederle come facesse a conoscere quel soldato dallo strano nome ma non riuscivamo mai a incrociarci. Di solito non mi impicciavo degli affari degli altri, ne avevo abbastanza dei miei, ma Elodie non conosceva molte persone qui. Le uniche altre mogli di soldati con cui parlava erano su Facebook.
Il mio cliente era un dormiglione. In genere crollava nel giro di cinque minuti. Mi è rimasta così un’ora intera per pensare a mio fratello. Oh… e per tremare all’idea della cena di quella sera. Invidiavo vagamente Austin perché era lontano, nella Carolina del Sud.
Dormiva fin dopo mezzogiorno e lavorava part-time in un centro commerciale. 

Fine della Preview




Cosa ne pensate? Stavate aspettando il nuovo lavoro di Anna Todd?


A presto!

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