giovedì 10 dicembre 2020

La vostra voce: "Tabula rasa" di Stefano Guglielmo

Buongiorno cari lettori, eccoci a un'altra tappa della rubrica "La vostra voce" , un'idea nata in collaborazione con il blog Un tè con la Palma, per dare voce e spazio ai vostri scritti.
Oggi vi parleremo di "Tabula rasa" di Stefano Guglielmo.




Titolo: Tabula Rasa
Autore: Stefano Guglielmo
Editore: Bookabook
Genere: narrativa
Pagine: 192
Prezzo: cartaceo 13€ ; ebook 6.99
Link d'acquisto: ebook; cartaeo;








A tutti capita di dimenticare qualcosa. Ma cosa accadrebbe se perdessimo la memoria di noi stessi? Riccardo lo sa bene, visto che gli è successo. Peggio, non ricorda neanche le convenzioni sociali, e la sua vita è diventata complicata: a quale distanza deve stare quando parla con qualcuno? Come mai non può dire a una donna che è grassa? E a un uomo che ha le ascelle sudate? Per quale ragione Greta non vuole più vederlo? Ma, soprattutto, che cosa si nasconde, davvero, nel suo passato?








Ecco 5 buoni motivi per leggere il romanzo: 

1. fa ridere
2. ti fa commuovere
3. ti fa riflettere sulla nostra società, su come ci comportiamo con gli altri, sulle maschere che indossiamo
4. ti rende una persona migliore
5. una volta terminato, per qualche giorno ti comporterai come Riccardo








Estratto 1:

L’inizio
Qualcosa mi dice che non è la prima volta che mi succede. È una sensazione tristemente familiare. Mi guardo intorno, penso di esser seduto al tavolo di un bar.
Bar. Si dice così? Sì, so che la parola deriva dalle barre che venivano apposte a locali come questo negli Stati Uniti durante il periodo del proibizionismo.
Buffo che sappia cosa vuol dire “bar” ma non in quale mi trovi.
Perché sono qui? Cosa avevo da fare?
Volgo lo sguardo davanti a me. Sul tavolino ci sono una tazzina sporca di caffè e un piattino pieno di briciole. Accanto vedo la mia mano. Sì, è la mia, ed è appoggiata su uno… si chiama smartphone, ne sono abbastanza sicuro.
Il cuore mi palpita in maniera tremenda, sento le pulsioni sulla nuca, sono spaesato. Che mi è successo?
Torno a guardare le persone accanto a me. Non conosco nessuno e nessuno sembra riconoscermi, la gente chiacchiera o legge un giornale.
Mi accorgo di respirare a fatica.
Dietro al bancone una ragazza si sta asciugando le mani sul grembiule, piega il capo nella mia direzione mentre parla con il suo collega.
Lui mi guarda. Viene verso di me.
Perché?
Ho fatto qualcosa di sbagliato?
Che mi succederà?

«Ehi, amico, tutto bene? Sei un po’ pallido» il barista sta socchiudendo gli occhi mentre mi fa questa domanda.
Lo fisso senza sapere che dire.
«Io… no…» Distolgo lo sguardo cercando aiuto da qualche parte. «Forse io…»
Mi arrendo.
«Non lo so.»
Mi vergogno tantissimo, tutti i presenti si sono voltati verso di me tralasciando chiacchiere e letture. Non è necessario che mi fissino!
Un uomo con una felpa bianca scollata si alza rapido dal suo tavolo e si inginocchia ai miei piedi. «Salve, sono un medico, non si preoccupi.»
Lo guardo, ne sono intimidito: un medico serve se stai male. Perché tutti mi guardano?
Il nuovo arrivato appoggia una mano sul mio braccio, cerca di sorridermi: «Sono il dottor Carofiglio, come ti chiami?».
«Io… Carofiglio.» Mi sembra la risposta giusta.
Il dottore scuote la testa e ripete: «No, io mi chiamo Carofiglio. Tu? Tu come ti chiami?».
«Ehm… Edoardo.»
«Ok, Edoardo, quanti anni hai?»
«Io… venti.»
Le persone attorno a me fanno una smorfia: perché?
«Bene, amico, come hai detto che ti chiami?»
Questa risposta la so.
«Edoardo.»
«Ok, dove devi andare?»
Mi piego in avanti tenendomi la testa con le mani, mi fa male da impazzire e mi sento esausto.
«Non lo so.»
Che imbarazzo!
«Va bene, come ti chiami?»
Interviene il barista. «Ha detto di chiamarsi Edoardo, dottò!»
Sembra arrabbiato, ma io mi chiamo così, almeno credo, e non posso farci niente.
Il dottore si alza in piedi, rotea gli occhi sospirando e lo guarda in faccia, indicandomi con un dito.
«Ripeto questa domanda per fare in modo che il suo cervello si focalizzi su un punto fermo, come vede il nome lo ricorda ma non si rende conto della sua età: è impossibile che abbia vent’anni. È in stato di shock.»
Peccato, mi sembrava che vent’anni fosse una buona risposta.
«Possiamo chiamare qualcuno che conosci, per poterti aiutare?» mi chiede il barista. «Hai una moglie, una fidanzata?»
Questa cosa non la so proprio, ma non posso rispondere sempre di non sapere nulla. Rimango in silenzio. Che mi è successo?

Sento il dottore parlare al telefono. Parla di me ma non capisco dove vogliano portarmi, non voglio andare con loro.
Il barista prende lo smartphone dal tavolino al quale sono seduto.
«Questo cellulare è tuo?» chiede, aggrottando le sopracciglia.
Spero che non sia mio: non voglio guai.
L’uomo armeggia con il telefonino ed esclama: «Ho trovato il nome “Amore” nella rubrica, dev’essere la sua ragazza».
Accosta l’orecchio al cellulare. Dopo qualche secondo, una voce metallica si fa sentire.
«Salve, signorina, non si preoccupi, sono il barista del Bar Sport: si tratta del suo, ehm… ragazzo o marito… non so, ad ogni modo non si sente bene e non ricorda nulla… Sì, abbiamo chiamato il 118… Sì, ma… certo…»
Mi guarda stranito e mi dice: «Ha riattaccato».
Qualcuno ridacchia. Per fortuna quasi tutti i clienti del bar sono tornati alle loro attività e non si curano più di me.
Arrivano dei paramedici (così ho sentito venivano definiti) nelle loro allarmanti uniformi rosse, mi fanno molte domande ma la mia confusione aumenta. Sento i battiti del cuore nelle orecchie.
«Stia tranquillo, non si preoccupi, siamo tutti amici» mi dice una di loro.
Mi misurano la pressione, controllano con una torcia elettrica le mie pupille mormorando qualcosa di incomprensibile.
Uno degli uomini in uniforme scrive con una penna su un foglio. Usa i guanti. Fa delle domande veloci ma nessuno gli risponde, sembra che comunque non ce ne sia bisogno perché trova le risposte da sé. E la risposta è solo una.
«Altezza? Nella media. Corporatura? Nella media. Pressione? Nella media. Lieve tachicardia…»
Mi fanno alzare in piedi scortandomi nell’ambulanza e se è possibile mi sento ancora più a disagio.
Cosa mi è successo?

L’oblio
Il tragitto sull’ambulanza l’ho vissuto in maniera molto tesa, e i bruschi cambi di direzione mi hanno spaventato non poco.
Il dottore che ho incontrato al bar ha continuato a parlare al cellulare che dicono sia mio, per potermi far assistere da qualcuno di mia conoscenza, e mi ha ripetuto diverse volte che in ospedale avrei incontrato mio fratello. 
La cosa mi turba: ho un fratello?
All’interno dell’ambulanza un paramedico mi ha dato delle pacche sulla spalla con la mano avvolta da un guanto blu, sorridendo e chiudendo un occhio solo, poi rivolgendosi al signor Carofiglio gli ha chiesto se fosse mio parente.
«No, sono il medico che vi ha chiamati. L’ho soccorso io» ha risposto il dottore allungando la mano verso di lui. Se la sono stretta dicendo contemporaneamente una parola, “piacere”. Evidentemente è così che ci si comporta con chi si incontra per la prima volta. Dovrò ben ricordarmene: non voglio che la gente mi guardi di nuovo nella maniera in cui sono stato fissato al bar. E se fosse stato per il mio comportamento?
Questi pensieri mi hanno tranquillizzato un poco durante il viaggio, anche se la mia agitazione è rimasta alta. 
Cosa mi succederà? Che mi è successo?
Mi hanno fatto accomodare su una sedia a rotelle. Una donna minuta mi ha spinto sorridente all’interno dell’edificio, lungo un corridoio e fino a un ascensore. Abbiamo atteso alcuni secondi davanti alle porte metalliche finché non si sono aperte. L’ascensore era già colmo di persone di varia età che ci hanno comunque fatto posto. Durante la salita c’era un silenzio insopportabile, probabilmente si erano tutti accorti di me e del mio problema.
«Dicono che sto male» ho avvertito i presenti. A queste mie parole tutti mi hanno dato uno sguardo veloce, poi hanno sorriso.
Giunti al quarto piano, sono stato sballottato in diverse stanze e in diversi macchinari prima di poter essere ricevuto da un tizio in camice bianco, che subito si è alzato in piedi per dirmi “piacere” e poi ha esaminato a lungo tutti i fogli che l’infermiera gli ha consegnato.

Ora sono in attesa di quello che il dottore dovrà dirmi. Mi guardo attorno. Sulle pareti sono affissi dei quadri, penso siano famosi. Mi alzo per studiarli meglio. Uno sono sicuro di averlo già visto: è la Gioconda di Leonardo, col suo sorriso furbo. Qualcosa mi ricordo, per fortuna.
Alla sua destra, però, è stato appeso un poster angosciante, rappresentante un teschio su un corpo sinuoso congelato in un urlo silenzioso. Dietro di lui il cielo è di fuoco e il paesaggio cupo.
«Proprio così! È il titolo del quadro.»
Mi volto, colto di sorpresa dal medico dietro di me, che pare sorridermi. Sembra accorgersi della mia reazione, per cui si affretta a spiegare: «L’ho sentita dire sottovoce “urlo”, perciò immagino che se ne ricordi».
«Che se ne ricordi chi?»
«Lei.»
Sono ancora più confuso.
«A chi ti stai riferendo?»
«D’accordo, vedo che non comprende, passerò a darle del tu.»
«Cosa vuol dire?»
Il tizio dal camice bianco mi accompagna, spingendomi, fin davanti alla sua scrivania e mi fa sedere.
«Quando non si ha sufficiente confidenza con i propri interlocutori ci si rivolge a essi come se si stesse parlando a una terza persona, per cui se ti devo chiedere “come stai?” la mia frase sarà “come sta?”»
Mi sembra una cosa stupida.
«E perché si fa questo?»
Mi risponde alzando le spalle.
«Si tratta di un modo per mostrare rispetto. Dunque, mi sembra di capire che non ricordi nulla, se non il tuo nome.»
«Sì, mi chiamo Edoardo.»
Lo vedo corrucciare la fronte, controllando le sue carte.
«A giudicare dai dati in nostro possesso, non è questo il tuo vero nome.»
La rivelazione mi lascia di stucco. Era la mia unica sicurezza.
Camice Bianco con una smorfia mi chiede: «Perché non controlli i documenti nel tuo portafoglio? Dovrebbe essere in una delle tue tasche».
Ricordo che un’infermiera mi aveva infilato un portafoglio in tasca dicendomi che era mio. Lo apro e trovo un documento intestato a un certo Riccardo Berbotto, e la foto all’interno è la mia, o perlomeno assomiglia molto all’immagine di me che ho visto riflessa in uno specchio del bagno dell’ospedale.
«Non mi chiamo Edoardo.»
Questo mi sconvolge, non conosco nemmeno me stesso!
«Eppure di lei mi ricordo!» Indico la Gioconda.
Il tizio annuisce, aggiungendo: «E anche dell’Urlo di Munch».
Fisso di nuovo quel quadro angosciante e scuoto la testa.
«No, quello no, ma tanto non mi piace. Mi angoscia.»
«Certo, certo.» L’uomo mi guarda ma sembra stia pensando ad altro. «Signor… ehm… Riccardo, che giorno è oggi?»
«Non me lo ricordo.»
«Capisco. Per la cronaca, oggi è il sedici aprile.»
Dalla porta dietro di noi spunta una signora che ci interrompe: «Dottore, il fratello del signor Berbotto è arrivato».
«Bene, lo faccia entrare.»
Il cuore mi balza in gola, conoscerò mio fratello.
Sono sicuro che appena lo vedrò lo riconoscerò e tutto questo garbuglio si risolverà da sé.

Il ragazzo che entra nello studio è alto e magro, con una barba incolta, i capelli un po’ più lunghi rispetto a quelli di tutti gli uomini che ho visto finora e gli occhi spalancati. Sembra quasi abbia paura. Porta una borsa marrone a tracolla che gli segna la maglia attillata color verde chiaro e regge tra le mani degli occhiali da sole. Sul dorso di una mano ha un tatuaggio che recita “Sorry mama”.
Camice Bianco si alza e io lo imito, anticipandolo nel salutare il nuovo arrivato. Gli porgo la mano dicendogli: «Piacere».
Ne rimane sorpreso. Forse ho sbagliato qualcosa. L’altezza della mano, magari? Non sono ancora molto pratico di questo saluto, per cui ho alzato il braccio fino a puntare il suo petto con le dita. Dovevo abbassare la mira, certo, che stupido che sono!
«Ricky, va tutto bene?»
In qualche modo la domanda mi fa impressione: questo ragazzo mi tratta in una maniera ben diversa dagli altri e si avvicina a me più di quanto abbia fatto il dottore.
Questi interviene rivolgendosi al tizio che dicono sia mio fratello: «Signor Berbotto, salve, sono il dottor De Rosa. Prego, si accomodi!».
Si siedono entrambi e poi mi fissano.
Mio Fratello mi dice: «Perché non ti siedi?».
De Rosa tossisce piano.
«Vede, suo fratello è vittima di amnesia.»
BANG!
A quest’affermazione mi sento come colpito da un’esplosione: il dottore aveva capito la natura del mio problema e non me ne aveva parlato? Allora tutti quanti sanno cosa mi è successo? Ma è inaccettabile! Perché mi ha nascosto la verità sul mio stato?
Il ragazzo che dicono sia mio fratello mi fissa come se mi fossero cresciute delle corna mostruose in testa, poi guarda con gli stessi occhi spalancati De Rosa.
«Cosa intende dire?»
«Sembra che suo fratello abbia perso la memoria episodica, in parole povere non ricorda gli avvenimenti della propria vita.»
«Quindi non ricordi niente?» A questa domanda Mio Fratello si inclina col busto verso di me.
Mi fa sentire in colpa e provo a indicare la Gioconda per non farlo preoccupare: di qualcosa mi ricordo.
De Rosa si rivolge di nuovo a lui strofinandosi le mani lentamente. «Alcune cose in effetti Riccardo non le ha dimenticate, per esempio quel famoso quadro, ma non è così per quanto riguarda il suo nome o i suoi affetti. Penso sia venuto a mancare un intero periodo della sua vita. Sono sopravvissute delle informazioni che per lui non hanno significato emotivo. Curiosamente, è rimasta intatta la memoria relativa alle nozioni scolastiche. La chiamiamo “memoria semantica”. Le faccio un esempio…» Si volta verso di me e mi chiede, a voce un po’ più alta: «Ti ricordi chi era Einstein?».
Questa è facile.
«Un fisico. Ha scoperto la teoria della relatività ristretta e anche quella generale. Ha dato un bel contributo alla meccanica quantistica. Ha anche avuto un Nobel nel…»
«Ok, ok, grazie Riccardo.» Il dottore scuote la mano verso di me, si rivolge a Mio Fratello e inarca un sopracciglio, sorridendo con un lato della bocca. «Vede? In pratica, ricorda tutto ciò che ha studiato, ma non ciò che ha amato.»
Mio Fratello mi fissa, sembra triste, poi volge lo sguardo ai quadri sulla parete, si concentra sul più brutto e dice, con voce più acuta, come se si stesse lamentando: «Nemmeno dell’Urlo di Munch ti ricordi? Ce l’hai addirittura appeso in soggiorno!».
Ok, come entrerò nel mio soggiorno darò fuoco a quel quadro.
«Penso sia perché l’opera è legata a lui in maniera affettiva,» il dottore tamburella con le dita sul tavolo «difatti Riccardo ha provato un’immediata reazione alla sua vista. Naturalmente la mia è una diagnosi precoce, e la psiche umana, a differenza di un arto fratturato, non è facile da trattare… Comunque, penso di poter aiutare Riccardo attraverso delle sedute regolari.»
Mio Fratello scuote la testa.
«Come è successo?»
Il dottore solleva entrambe le spalle imbronciandosi appena e inarca nuovamente le sopracciglia.
«La causa potrebbe essere un trauma, la carenza di vitamine, alto consumo di alcolici o di sostanze psicotrope…»
«Quando recupererà la memoria?»

Estratto 2:

Note da ricordare:
• ai giardinetti non si dice a una madre che suo figlio è più brutto degli altri;
• è maleducazione dire a un padrone che il suo chihuahua sembra un topo che ha avuto un incidente;
• i padroni dei cani orrendi urlano più delle madri di figli brutti.

Il mio capo sembra abbia paura di toccarmi mentre indica in quale settore professionale ero occupato: abbigliamento femminile.
Per prima cosa mi porta in un camerino e mi consegna un pantalone nero e una camicia bianca. Si allontana per tornare con delle scarpe scamosciate. Mocassini color rosso scuro.
«Per l’amor del cielo, togliti quella tuta inguardabile e mettiti questi!»
«Ah, scusami, ma non posso tenerla? È comodissima... vuoi provarla?»
Mi fissa inarcando un sopracciglio.
«Ho chiesto se vuoi provarla...»
«La mia espressione non ti dice che è ovvio? Un cento per cento poliestere, tanto vale che mi vesta di sacco... Allora è vero che non ricordi nulla.»
«Davvero, non ho ricordi.»
«Quindi l’unica cosa che ricordi è che non ricordi nulla.»
Ci rifletto. Ha ragione, ma la cosa che ha detto fa anche ridere. È un paradosso.
Note mentali: una cosa può essere vera e far ridere; alludere al mio stato psichico fa ridere.
Mi tolgo i pantaloni mentre rifletto su questo, ma il mio capo mi ferma: «Non ami la privacy o hai scoperto che ti piace spogliarti in pubblico?».
«Cosa vuol dire?»
Alza gli occhi verso l’alto, sbuffa, chiude la tendina e se ne va.
Rimango un attimo a fissare il soffitto, ma non noto nulla che mi faccia sbuffare.
Da fuori lo sento urlarmi: «E giusto perché tu lo sappia, non devi metterti le calze!».
Non sono a mio agio.
Il capo non ha indovinato la mia taglia e quindi i pantaloni sono troppo stretti e troppo corti: non arrivano nemmeno alle caviglie. Quando però si accorge che sono uscito dal camerino
esclama tra sé e sé: «Perfetto!».
Mi sbottona il primo bottone in alto della camicia e mi mette un braccio attorno alle spalle, mentre mi fa da guida tra i pochi espositori di abiti femminili.
«Mi hanno riferito del tuo... stato. Per cui ti impartisco una breve lezione sulle tue mansioni. Non aver paura, tu hai sempre avuto un dono di natura, piaci alle donne. Ed è una fortuna, perché vengono da noi e acquistano, le disperate! In più, hai sempre seguito la mia prima e unica regola: di’ loro quello che vogliono sentirsi dire.»
Lo interrompo: «In che senso?».
«Riccardo, ognuno crede alle balle che lo fanno più contento.» Si mette di fronte a me e sorride con un angolo della bocca. «Le donne che comprano nella nostra esclusiva boutique sono delle insicure che tentano di dare un senso alla loro vita con un abito nuovo. Ma, e questo rimanga tra noi, puoi cambiare le piastrelle, però un cesso rimane sempre e comunque un cesso!» Ride tra sé, compiaciuto. «Ti faccio un esempio, se una donna di novantacinque chili e le gambe di Karl-Heinz Rummenigge vuole mettersi una taglia più piccola, tu stai zitto e gliela vendi. Ah, e le rivolgi anche mille complimenti, sebbene la balena sembri un insaccato!»
«Ma così le diciamo bugie!»
«Bugie bianche, quando è uno bello come te a rifilargliele le donne vanno in brodo di giuggiole... Dai, mettiti all’opera e stai tranquillo che ti guardo le spalle.»
«Grazie, eravamo amici io e te?»
«Piuttosto che essere amico tuo mi farei operare all’arteria femorale da un barbone affetto da parkinsonismo. Per me sei un buon lavoratore e tanto mi serve e mi basta.»
«Ma perché mi guarderai le spalle, allora?»
«Tutelo i miei affari, punto.»
«Quindi alle ciccione che cosa vendo?»
«No, Riccardo. Non dire cicciona, usa altre parole.»
«Devo dire “importante”?»
«Cosa? No... Nel mondo della moda non esistono ciccioni ma “taglie forti”. In questa boutique non entrano delle donne coi fianchi larghi e una sesta di reggiseno, ma al limite delle “burrose”, e queste non hanno bisogno di una taglia più larga, bensì di una “che vesta più comoda”.»
«Perché?»
«Perché le parole vere fanno paura alle persone, in generale... taglie forti incluse.»  Mi lascia da solo. Invio un SMS a Greta e le chiedo se una bugia bianca si può dire.
Mi risponde abbastanza velocemente:
Non sono la tua babysitter, e comunque una bugia bianca è sempre una bugia.
Dunque anche la linea di condotta del mio capo non è giusta. Meno male che Greta mi fa da guida, non saprei proprio  come raccapezzarmi, altrimenti.
Ricevo da lei un secondo SMS:
È confortante saperti idiota, sempre e comunque!
Non la capisco. Come non capisco molte cose, perciò quasi non mi dà fastidio.
Faccio la conoscenza delle mie colleghe. Mi sorridono tutte e questo mi fa piacere. Una si chiama Laura. Fritz mi aveva parlato di lei. Infatti le dico: «Il mio migliore amico mi ha detto che io gli ho confidato che sei l’unica collega che ancora non mi sono fatto. Ma che presto farò l’en plein. Non so cosa voglia dire, ma penso io debba essere contento che succederà tra poco».
Lei sgrana gli occhi e insulta pesantemente mia madre. Poi se ne va di corsa.
Non capisco nemmeno questo.

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